di Margerita Grasselli

di Rossana Calbi

foto di Luigi Mistrulli


Martina e Avigail vanno a Lecce.
Le bimbe di Margherita da luglio rispecchiano la morbidezza della pietra leccese, alloggiano i pensieri di chi li ha plasmati nel Museo Ebraico e nella sede della Provincia di Lecce, stanno lì e possono sembrare ferme e immobili, ma racchiudono strato dopo strato tutto il percorso di chi le ha plasmate.
Martina e Avigail sono due delle creature della scultrice perugina che a settembre esporrà i suoi lavori a Varsavia. La compostezza di queste creature sono la misura e il canone di Margherita Grasselli, la sua ricerca è iniziata lentamente con una tecnica che si è costruita negli anni: il colore piatto è l’indice di una disposizione umorale che si muove verso la semplicità, la forma è ben delineata per recuperare un pensiero puro, sincero come lo è quello che attribuiamo ai bambini, come quello che dobbiamo preservare per loro.

Le opere dell’artista romana d’adozione, sono state collocate di recente, dal 28 al 30 giugno, presso l’Orto Botanico della Capitale e lì che hanno vissuto l’intesa maggiore, quasi istantanea con la materia stessa di cui sono fatte: la terra, lei che si struttura ancora per creare altro da donarci.

La tecnica. Spiegaci la tecnica che usi per le tue opere e come la usi per dare il significato che ti è utile?

La mia tecnica prevede l’uso dell’argilla Raku Sila, una terraglia che viene appositamente creata per me secondo la chamotte richiesta. Ne risulta un impasto il cui aspetto, alla fine di una lunga lavorazione, a cottura ultimata, è prossimo alla pietra arenaria feldspatica, conosciuta come pietra di Gorgoglione o di Matera.

Questa materia così lavorata porta alla percezione di qualcosa di vivo, che parla del trascorrere del tempo, che nell’attimo in cui scolpisco si ferma. Dopo anni di sperimentazione ho raggiunto quella perfezione nella tecnica esecutiva che mi permette di ottenere in seconda o terza cottura quella perfetta smaltatura che su questa argilla così difficile da domare sembrava impossibile da perseguire come obbiettivo ultimo. Questo contrasto netto tra il grezzo dell’argilla e la raffinatezza della smaltatura conferisce al mio lavoro quella precisione tecnica che mi permette di comunicare ciò che intendo esprimere. Nel corso degli anni ho scoperto che la scultura è innanzitutto forma ma la forma non può esistere per se stessa senza un pensiero o un’emozione che si vuole chiarire a noi stessi. L’opera non può non essere vera, non nascere da un’esigenza intima della nostra coscienza.

Le tue sculture sono delle bambole e giocano con altre bambole, un cerchio che si chiude nell’incoscienza e nella volontà di dimenticare. Cosa hanno di caro queste figure? Cosa non vogliono dimenticare?

Intanto ci tengo a fare una premessa fondamentale: le mie sculture non sono bambole ma bambine. Ogni mia opera ha una sua tensione interiore che l’attraversa, muovendo in risonanza l’animo di chi l’osserva. Le mie sculture di bambine senza volti, senza tratti, con le loro pose ferme, immobili colgono alcuni momenti e li fermano come solo l’arte contro il tempo può fare. 

Il risultato tecnico delle tue opere è una luce conforme sulla figura, ma questo rifiuto delle ombre sembra nascondere ancora più di queste. Cosa palesano e dichiarano le tue sculture?
La loro assenza di tratti somatici comporta che sulla parte relativa al volto si denoti un’assenza di ombre. Ma la natura istintiva nonché primordiale dei bambini io personalmente la penso e la vivo senza ombra alcuna. Nel loro diritto all’infanzia si dovrebbe sottendere un’assenza di ombre. 

Io creo prima di tutto per me stessa ma ho sempre sottolineato che ogni scultura compiuta è un DONO di una parte di me che offro principalmente a chi mi ama e di certo a tutti coloro che vogliono accettarlo. Ogni scultura di bambina con la sua apparente fissa inespressività parlerà a ogni osservatore in modo diverso quando sarà prossimo ad accostarla e per me sarà un quadro, uno specchio in cui in qualche modo si rifletterà il volto di ciascuno. 


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